A un concerto dei Waterboys in Scozia, piangendo come un bambino, ho capito quanto devo alla musica. Ho sempre diffidato di chi dice: «Scrivo solo per me». Se è davvero così, perché cazzo vuoi pubblicare?
- A settembre 2019, dopo un mese intero di vacanze, a Glasgow suonano i Waterboys. Lì, in mezzo a tutta quell’emozione, viene su tutto: piango come un bambino. Perché ci sono i ricordi di una vita che riaffiorano.
- Ho le birre in mano e non riesco neanche ad asciugare le lacrime. Tanto ne usciranno altre in queste due ore. Sto pensando che devo davvero tanto alla musica. E non solo per questi trent’anni di “professionismo da dilettante”.
- Ho sempre diffidato di chi dice: «Io scrivo solo per me». Se davvero scrive «solo per lui», si può sapere perché cazzo lo vuol pubblicare?
Settembre 2019. Vengo da un mese intero di vacanze. Erano decenni che non ne facevo così tante tutte insieme. Ne ho avuto bisogno per riprendermi da un tour molto bello e intenso ma che, per qualche problema di affluenza, ha dato la stura a una certa cattiveria. Ora sono al Barrowlands, club storico di Glasgow. Una birra media per mano. Come chiunque attorno a me. Stavo trascorrendo una settimana qui in Scozia con la famiglia quando ho scoperto che c’erano i Waterboys in tour. I Waterboys sono una mia vecchia passione.
Esattamente trent’anni fa, mentre a Milano stavo registrando il mio primo album, fecero un concerto all’ex Teatro Smeraldo. In quei giorni il mio tasso emotivo era alle stelle fra agitazione, entusiasmo, smanie, dubbi, esaltazione e chi più ne ha più ne metta.
Musica dal vivo
E quel concerto, caricato di tutte le emozioni che stavo vivendo, è stata una delle esperienze più forti che la musica dal vivo mi abbia mai regalato. Eccomi qui. Adesso. Trent’anni dopo. A casa loro. Lo show era sold out da mesi e ho passato ore a chiamare spudoratamente chiunque mi potesse aiutare a entrare.
Credo che qualcuno gli abbia fatto sapere che ho usato la loro The Whole of the Moon nel mio ultimo film. Non so se sia stato per quello, ma sono saltati fuori tre pass. Il locale è una vecchia dance hall spoglia di tutto a parte un palco e un divanetto uno.
E, ovviamente, a parte tre bar. Mai visto girare così tanta birra in vita mia. Attorno a me nessun italiano, pochissimi giovani e molta compostezza. Ma quando la musica di sottofondo viene spenta, tutto quel garbo si trasforma in un urlo bestiale. Mike Scott e la sua band di adesso salgono senza manfrine sul palco.
Corto circuito
Lui è in buona forma fisica, il look molto curato. L’urlo fa un altro scatto. Sono così contento di stare lì, nel parterre, in mezzo a loro, senza che nessuno abbia una ragione per osservarmi. Mentre tutti alzano il bicchiere a dare il benvenuto, parte il primo pezzo. E io prendo la scossa.
È una specie di corto circuito fra questo momento e quello di trent’anni fa che porta a galla, come vere e proprie scariche elettriche, tutti questi ricordi su e giù da un palco che spuntano veloci, come vogliono, alla rinfusa.
Ma poi è con Fisherman’s Blues, il secondo pezzo, che le cose prendono una piega quasi esagerata. Basta lo strumming iniziale di chitarra acustica che si scatena la gioia e tutti si smollano e cominciano a intonare gli “uh uh uh” del ritornello tenendo il tempo con i piedi perché hanno le birre in mano. Ed è lì, in mezzo a tutta quell’emozione, che vado, piango come un bambino.
Perché viene su tutto. Palchi, sale prove, stanze d’albergo, facce, gruppi, strumenti, incontri, camerini, facce, studi di registrazione e televisivi e radiofonici e cinematografici e di posa, autogrill, facce, nascite, lutti, matrimoni, separazioni, giornate normali, quasi normali, tragiche, speciali, straordinarie. Facce.
Al mondo di domenica
Ma anch’io ho le birre in mano e non riesco neanche ad asciugare le lacrime. Tanto ne usciranno altre in queste due ore. Sto pensando che devo davvero tanto alla musica. E non solo per questi trent’anni di “professionismo da dilettante”.
Nel mondo di chi scrive, e specialmente nel rock, c’è spesso una brutta storia di genitori: alcol, psicofarmaci, depressione, rigidità, suicidi, molestie, separazioni. Io vengo da una famiglia che nella sua semplicità era felice, per cui la mia irrequietezza cronica non ha quel tipo di alibi. Viene da altro. Sono venuto al mondo di domenica, quasi a mezzogiorno. Come dire… ho voluto mettere subito le cose in chiaro. Ho dentro il sangue di una suora. Mi ha salvato la pelle, certo, ma forse spiega anche le mie dosi massicce di senso di colpa.
Ampli sempre a dieci
Un’ex stalla dove tutto rimbombava, gli ampli sempre a dieci e il batterista che doveva pestare di più per non farsi coprire. Non sentivo niente di quello che stavo cantando, ma mi piaceva. Tanto. Non avrei più potuto farne a meno. E poi il vicino non ci sparava.
Ho sempre diffidato di chi dice: «Io scrivo solo per me». Se davvero scrive «solo per lui», si può sapere perché cazzo lo vuol pubblicare? «Ho deciso, quest’anno facciamo San Siro». «Ma sicuro, Maio, e perché non uno spettacolino su Saturno?». «Guarda che sono serio». «Anch’io. Ho già fatto prenotare le astronavi. Solo che per Saturno è un certo viaggio. Mi sa che non vengono in tanti». «Ascolta, sono il tuo manager o no?».
«Lo sei». «E allora ti dico che facciamo San Siro». «Cambia pusher». «Anzi, vedrai che ne faremo due, di serate». «Sì, vabbè, ciaooo…».
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